mercoledì 27 maggio 2015

Lloyd Jones - Il libro della gloria

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Lloyd Jones
Il libro della gloria
traduzione: Andrea Sirotti
Einaudi, 210pp

Nel 1905 la squadra neozelandese di rugby dava inizio ad una tournée intercontinentale per affrontare le maggiori squadre europee ed americane, con il risultato di trentatre partite vinte ed una sola sconfitta, ottocentotrenta punti conquistati e solo trentanove subiti. Erano gli Original, che la stampa ribattezzò presto gli All Blacks, per la loro tipica tenuta nera o, come vuole la leggenda, per un errore tipografico della descrizione della loro tecnica di gioco, all backs, ossia, tutti in attacco, una tattica che gli europei non avevano mai sperimentato.
Il libro di Jones, già noto ai lettori Einaudi per il suo Mister Pip, non è un’opera di taglio giornalistico o un reportage storico in senso classico, ma neppure un romanzo. Dovete pensare a Il libro della gloria come ad un vecchio ed ingiallito blocco d’appunti, ad un album di scatti in bianco e nero, ad un diario di viaggio nel vecchio continente, ed oltre. Come ad un coro ad una sola voce. A parlare degli All Blacks, infatti, non è l’autore, ma gli stessi All Blacks. Con un insolito “noi narrante” – al tempo stesso di tutti e di ciascuno, onnisciente ed autobiografico – ed una punteggiatura sapientemente quasi assente, Jones ricostruisce un’unica grande eco storica, una haka immortale per quei ventisette ragazzi che fecero l’impresa. Una serrata corrente di impressioni e ricordi ed ancora resoconti delle partite, punteggi e persino i menù delle cene. Un ritmo di memorie (e di lettura) intenso, anche se non sempre facile da sostenere, se non fosse per quella voce che non sa perdere mai – neppure lei – l’entusiasmo.
Ma chi erano, poi, questi ventisette eroi? Perché la vera storia è questa! Billy Stead è calzolaio, Billy Wallace un fabbro, Bill Cunnigham un minatore, Jimmy Hunter un agricoltore. Giusto per fare qualche nome. E queste origini umili gli All Blacks non le dimenticano mai, nonostante le vittorie, i riconoscimenti e la fama. Perché lo spirito degli Original, e di questo omaggio di Lloyd Jones, è tutto nell’agonismo, nella nostalgia, in quel loro “non volevamo interrompere l’Inghilterra, non volevamo attirare l’attenzione su di noi” mentre, con lo sguardo pieno di stupore ed il passo un po’ incerto scendono sul molo inglese al loro arrivo in Europa e nella Storia.

Luca Benedetti
(originariamente pubblicato su Pulp Libri n.80 luglio/agosto 2009)


lunedì 18 maggio 2015

Mercè Rodoreda - La Piazza del Diamante

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Mercè Rodoreda
La Piazza del Diamante
traduzione: Giuseppe Tavani
La Nuova Frontiera, 223pp

In occasione del centenario della nascita di Mercè Rodoreda (1908-1983), La Nuova Frontiera ripropone in Italia uno dei suoi testi più importanti, sia per la letteratura catalana che europea. Una data che si accompagna anche ad un riconoscimento tardivo della critica nei suoi confronti, quale una delle maggiori autrici del dopoguerra spagnolo, tanto che, in un pluricitato articolo de El Pais degli anni ’80, lo stesso Gabriel García Márquez si stupiva di come, alla scomparsa della Rodoreda, la notizia non avesse oltrepassato i confini iberici. In merito, del 2008, si è parlato come dell’Año Rodoreda: su iniziativa della Fundación Mercè Rodoreda e delle istituzioni spagnole si sono avvicendate ristampe editoriali in tutta Europa, giornate accademiche a Parigi e New York, una riduzione teatrale di Josep Maria Benet i Jornet, rigorosamente in catalano, e la presentazione di una edizione gratuita de La Piazza del Diamante alla Fiera del libro di Francoforte. Un anniversario che, con questo libro, ci porta indietro di settant’anni, all’alba della guerra civile spagnola fino all’ascesa di Francisco Franco, quando la Rodoreda, antifascista e impegnata sul fronte indipendentista del governo autonomo della Catalogna, sceglieva un esilio trentennale che si sarebbe concluso solo nel 1972. È sul filo di questi anni che si svolge la La plaça del Diamant ed è proprio là, in quella piazza barcellonese, che con un paso doble di danza, Natàlia conosce il futuro sposo Quimet. Ragazza timida, di poche parole e ancor meno malizia, Natàlia viene così trascinata nella vita, con un marito passionale e carismatico, allevatore di colombi ed ebanista, un amore che, poi, la guerra civile le porterà via, lasciandola sola e con due figli da crescere. Un iter durissimo che sfiorerà la tragedia e dal quale si riscatterà solo con un secondo salvifico matrimonio, non privo, però, di vecchie ferite. La voce che la Rodoreda adotta è la voce di Natàlia stessa, meravigliata, remissiva, concitata, felice e disperata, più vicina al parlato della confidenza che alla parola scritta, “con uno stile” – si legge nella postfazione di Giuseppe Tavani – “volutamente discorsivo, ritornante, quasi elementare ma che si mantiene in prezioso equilibrio tra lingua viva e «grammatica»” e che “rievoca le vicende quotidiane di una donna semplice, ingenua, fragile eppure capace di far fronte alle difficoltà crescenti della vita con insospettate risorse”. Una voce che è anche quella del popolo catalano, trafitto e privato della propria libertà, dove i ricordi, gli affetti e le paure si spiegano e si raccontano con immagini altrettanto semplici, come l’umile veccia del droghiere, il vecchio orologio di Quimet, lo svolazzare dei suoi colombi o le fucilazioni in piazza e le bandiere, tesori della memoria e del “tempo che non si vede e ci impasta”. 

Luca Benedetti
(originariamente pubblicato su Pulp Libri n.79 maggio/giugno 2009)

Paul Auster - La vita interiore di Martin Frost

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Paul Auster
La vita interiore di Martin Frost
traduzione: Massimo Bocchiola
Einaudi, 145pp

“(Voce fuori campo) Ma che ne sapeva? Qualche ora di silenzio, qualche boccata d’aria pura, e d’un tratto l’idea di una storia stava già aggirandosi nella sua mente.”
Martin Frost, terminato il suo ultimo libro, si concede un periodo di riposo nella casa di campagna dei suoi amici, Diane e Jack Restau, ma al suo arrivo scopre di avere già nuova ispirazione. E non solo. La mattina dopo, svegliandosi, trova nel suo letto una sconosciuta che sostiene di essere la nipote di Diane, Claire Martin. Superate le prime diffidenze, Martin se ne innamora, ma mentre il suo libro fa progressi, lei lentamente si indebolisce e si ammala. Una strana coincidenza che desta in Martin il sospetto sulla vera natura del loro incontro.
Quarta prova di Auster alla regia - dopo Smoke e Blue in the face con Wayne Wang nel ’95 e Lulu on the Bridge nel ’98 - la storia di Martin Frost, prima di diventare il lungometraggio che è oggi, ha girato nei cassetti della mente di Paul Auster per almeno dieci anni, scritta inizialmente per un cortometraggio mai girato e, in seguito, trasformata in uno dei film di Hector Mann nella finzione narrativa de Il libro delle illusioni che Auster pubblicò nel 2002.
Di quest’ultima e ampliata stesura cinematografica, l’autore della Trilogia di New York ne parla come “la storia di un uomo che scrive la storia di un uomo che scrive una storia”, una definizione che non ci deve stupire, perché ne La vita interiore di Martin Frost di storie se ne intersecano molte: quella della sceneggiatura stessa, quella che Martin scrive, quella che vive con Claire e quella vera, che Frost appunterà su un taccuino per fermare sulla carta l’inspiegabile verità sulla sua Claire. Una narrazione a incastro tra il Martin Frost scrittore e il Martin Frost personaggio, tra la Claire donna e la Claire musa, un triplice riflesso tra materiale di scrittura, vita reale e resoconto biografico del suo inverosimile ritiro sabbatico. Auster, però, compie una scelta espressiva meno marcata ed esplicita rispetto ai più recenti Viaggi nello scriptorium o Uomo nel buio, ben gestendo, con un confine più sottile, verrebbe da dire poetico, il ruolo dello scrittore, la creatività e l’esperienza diretta, rompendo lo schema ispirazione/autore/scrittura per riassemblarne uno non transitivo e più omogeneo, dove i tre elementi coesistono allo stesso livello, sostituendo la storia inventata con quella vissuta, in un conflitto di sentimento e arte.

Luca Benedetti
(originariamente pubblicato su Pulp Libri n.79 maggio/giugno 2009)

AA.VV. - Sono come tu mi vuoi

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AA.VV.
Sono come tu mi vuoi
Laterza, 161pp 

Tra il 2006 e il 2007 usciva la rivista "ilmaleppeggio”. La dirigeva Lanfranco Caminiti e il sottotitolo era “storie di lavori”. Con articoli e racconti, si occupava della mutevole condizione lavorativa romana e laziale. Oggi Laterza ripropone alcuni di quei racconti nella bella collana Contromano. Tanti episodi che sono uno solo, legati da un filo rosso (di bolletta), quello del lavoro e di ciò che una volta amavamo definire mobilità e che oggi chiamiamo col suo vero nome, precariato. Come già avveniva in altri titoli di quegli anni, Vita precaria e amore eterno di Mario Desiati o Mi chiamo Roberta, ho 40 anni, guadagno 250 euro al mese di Aldo Nove – ricorda nell’introduzione l’ex caporedattore Carola Susani - anche in questi brevi testi, il lavoratore, quello precario, si ritaglia un ruolo tutto suo nella narrativa nostrana, in un genere che potremmo chiamare neopicaresco e, al centro di questa labor-lit, c'è proprio l’involuzione della vita lavorativa, scevra da concetti quali la stabilità e la realizzazione professionale. Sono come tu mi vuoi raccoglie una rosa di esperienze lavorative figlie del loro tempo, storie vere, quotidiane, riconoscibili, storie che potrebbero essere raccontate da numerosi “chiunque” in vena di confidenze durante la loro pausa pranzo. Dal manager di Antonio Pascale ai macchinisti di Elena Stancanelli, dagli stagisti di Nicola Lagioia e di Peppe Fiore ai venditori ambulanti di Stefano Liberti, dal centralista di Tommaso Pincio alla “taccheggiatrice” di Zara di Sara Ventroni. E poi i pendolari degli outlet, i commessi stagionali, i centralinisti, gli immigrati irregolari. Tutte realtà, seppur con le dovute differenze, dove, a volte, “il non avere diritti finisce per sembrarti la cosa più ovvia del mondo”. Lavori hic et nunc, senza troppe radici, senza una propria identità, dove la negazione storica di quel mitologico posto fisso - di appena due generazioni fa - ridimensiona il lavoro ad una mera funzione pratica e ciò che resta, insieme alla rigorosa franchezza con cui queste storie sono state scritte, è la sorprendente empatia che si avverte tra quel che si legge e quel che si vive… a progetto.

Luca Benedetti
(originariamente pubblicato su Pulp Libri n.79 maggio/giugno 2009)

Paola Mastrocola - E se covano i lupi

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Paola Mastrocola
E se covano i lupi
Guanda, 217pp

E se covano i lupi? E se le anatre fanno le giornaliste e i ricci i gonfiatori di palloncini? E se i topi fanno i tipografi? E se da un uovo nasce un lupetto? Di solito le favole cominciano con “c’era una volta” e non con i se, ma questa favola è già iniziata altrove, lungo una strada, vicino ad una pattumiera, dove la piccola Anatra appena nata – bontà dell’imprinting - pensò di essere figlia di una ciabatta per poi finire innamorata e sposa del Signor Lupo. Così finiva Che animale sei, di cui, con E se covano i lupi, la Mastrocola ci dà un degno proseguimento. La premessa è squisitamente esistenziale. Lupo, insegnante di Filosofia della Pesca e scrittore, non vuole solo pensare nella vita, così alle soglie della paternità, per sentirsi meno “astratto” decide che deve fare qualcosa di più concreto, ossia covare le tre uova in vece della sua cara Anatra, che si ritrova libera di… svolazzare dove vuole! Almeno all’inizio. E qui mi fermo. Perché questa non è solo una favola, o un libro sull’Attesa – l’attesa di diventare genitori, di un cambiamento o l’attesa in sé per sé, come amerà ragionarci Lupo – E se covano i lupi è qualcos’altro. Un’acuta e leggera metafora di tante altre realtà che favole non sono. Acuta, perché strappa un sorriso amaro con i suoi Potentipotenti del mondo intenti a giocare a nascondino sotto l’acqua per non farsi vedere da nessun Nonpotente, o con l’esercito dei Gufi bengufanti che mal tollerano gli atteggiamenti da “mammo” del lupo, o con i suoi giornalisti muniti di secchiello di sabbia per ficcarci per bene la testa dentro. Leggera, perché la prosa semplice e allegra sembra rivolta effettivamente solo a dei piccoli lettori in erba. Un libro duplice che però non ostenta moralità troppo profonde, preferisce raccontare, al contrario, una bella storia, con l’ingenuità, che qui non è un difetto, di chi vuole provare qualcosa di “favoloso” in un momento così profondamente grigio. Un libro che, per una volta, può passare tranquillamente da un comodino all’altro, da quello dei genitori a quello dei figli, mantenendo sempre la sua espressività e un ottimismo grazie al quale, parafrasando il butterfly effect della teoria del caos, il battito d’ali di un’anatra può veramente cambiare il mondo.

Luca Benedetti
(originariamente pubblicato su Pulp Libri n.78 marzo/aprile 2009)

Ian McEwan - Blues della fine del mondo

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Ian McEwan
Blues della fine del mondo
traduzione: Susanna Basso
Einaudi, 47pp

Nato come una lettura presso l'Università di Stanford e poi pubblicato nel volume The Portable Atheist: Essential Readings for the Non-Believer a cura di Christopher Hitchens, Blues della fine del mondo è un esile ma robusto saggio sul rapporto tra l’uomo e la sua finitezza.
McEwan inizia proprio con i suoi interlocutori, pensando ad una fotografia del loro incontro che un giorno non rappresenterà altro che qualcosa di ormai finito, concluso, passato e forse antiquato, proprio come lo sono per noi, oggi, delle vecchie foto di appena un secolo fa.
Dopo questo incipit freddo e morboso, McEwan allarga il suo sguardo all’umanità intera, con un aneddotico excursus dei movimenti millenaristici medioevali fino alle più recenti aggregazioni religiose statunitensi.
Se prima la fine del mondo aveva come riferimenti scenari apocalittici e fuori dal controllo dell’uomo, oggi potrebbe essere l’uomo stesso a spingere i bottoni sbagliati. Ma McEwan non fa una polemica sul nucleare. Riflette, più che altro, sul bisogno che l’uomo ha di una compiutezza, di dare un volto o un nome alla propria temporalità. Che siano un dio o la storia, che sia l’anticristo o un esperimento sui buchi neri a segnare quei punti di non ritorno per il genere umano, questi, in realtà, sono solo un modo per cercare risposte, risposte che, per assurdo, una fede religiosa non può che rimettere solo che a se stessa e alla sua innata ineffabilità. Non ha importanza quale sia il credo, piuttosto la forza di un pensiero apocalittico che risiede nel credo stesso. E non nella scienza! L’approccio di McEwan non può essere che ateo o, se non vogliamo dare etichette, sicuramente analitico e razionale. Non esclude che il credente possa essere nel giusto, ma si preoccupa che questi possa avere almeno un ragionevole dubbio sulle proprie certezze. Tutto questo, per McEwan, è possibile solo grazie alla curiosità, laddove “le religioni ufficiali hanno sempre avuto, per usare un eufemismo, un rapporto difficile con la curiosità”, ovvero con la volontà di capire. Se la scienza oggi non ha potuto ancora determinare cosa sia certo e cosa sia vero in assoluto, è della curiosità che deve avvalersi per rimanere quell’unica fonte di “conoscenza genuina e verificabile del mondo”. L’uomo vivrà pure nell’incertezza, ma, conclude McEwan, “affrontare tale incertezza costituisce il mandato della nostra maturità”.

Luca Benedetti
(originariamente pubblicato su Pulp Libri n.78 marzo/aprile 2009)

Jesus Marchamalo - Toccare i libri

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Jesus Marchamalo
Toccare i libri
Traduzione: Claudia Marseguerra
Ponte alle grazie, 61pp

Ponte alle Grazie porta in libreria un libercolo piacevolissimo, sia da leggere che da recensire, di Jesus Marchamalo, giornalista spagnolo ed autore televisivo che spesso si è occupato di cultura e comunicazione e reduce da poco da un ultimo libro su Julio Cortazar. Toccare i libri nasce come risultato di alcune conferenze tenute da Marchamalo sul rapporto tra lettori e libri, o meglio, tra i lettori e le loro librerie. Come queste vengano riempite, ordinate, conservate o persino abbandonate. Questo libro è un piccolo viaggio all’interno di una mania, grande o piccola che possa essere, e delle sue sfaccettature, tante, ma anche comuni tra molti bibliofili, collezionisti o buone forchette della pagina scritta. Marchamalo, ricordando Marguerite Yourcenar, si fa forte anche di un assunto, ossia che “conoscere la libreria di una persona è un modo perfetto per capire chi sia” ed infatti  tramiti di questa sua analisi sono poi alcuni grandi nomi della letteratura, tanto che Toccare i libri si presta colloquialmente ad una aneddotica curiosa ed impertinente che svela retroscena di librerie molto famose e le abitudini dei loro illustri proprietari, visti stavolta come lettori. Non si sorprendano i lettori più forti quindi durante la lettura di Marchamalo nel lanciare uno sguardo alla propria libreria ed a fare inevitabili confronti. Anche perché “ai libri bisogna riconoscere una sorprendente capacità di colonizzazione” dice l’autore. In questo senso Marchamalo crea una sorta di prossemica dei libri che coinvolge chiunque abbia non solo la passione della lettura ma anche la passione di possedere i libri, di conservarli, di lasciarli in pile disordinate per casa, di non prestarli mai o di riempirli di annotazioni. E viene inevitabile anche una riflessione su questo possesso che in questi anni sta cambiando, sempre più virtuale attraverso gli ebook e che se da un lato risponde a problemi di spazio, dall’altro crea una strana distanza tra il concetto classico di libro ed il lettore… e non è detto che questa si debba considerare una evoluzione.

giovedì 14 maggio 2015

Dale Furutani - A morte lo shogun

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Dale Furutani
A morte lo shogun
traduzione: Michele Foschini
Marcos y Marcos, 260pp

Con A morte lo shogun, Dale Furutani – giapponese di origini e americano d’adozione - chiude l’arco narrativo iniziato con Agguato all’incrocio e Vendetta al palazzo di giada e dedicato a Matsuyama Kaze. Siamo nel Giappone del 1600, lo shogun Tokugawa Ieyasu ha da poco consolidato il suo potere e Kaze è ormai un ronin, un samurai senza padrone, ma con un ultimo incarico, ritrovare la figlia dei suoi antichi signori, caduti durante l’ascesa dei Tokugawa. Giunto nella città di Edo, dove la piccola è prigioniera in una casa di piacere, Kaze viene coinvolto nel tentato omicidio del nuovo shogun, un complotto che dovrà inevitabilmente risolvere per raggiungere il suo obiettivo primario. Se questa premessa fa pensare ad un drammatico romanzo storico, lo stesso autore ammette, in calce al libro, che il suo intento con questa serie è di divertire. Furutani crea, infatti, la figura di un über samurai capace di far incondizionatamente fronte a ninja assassini ed a manipoli di soldati senza tema di sconfitta e disonore, abile nell’arte della spada e del travestimento, nobile nelle scelte e persino bello d’aspetto. Se tanta perfezione rende facile immaginare l’esito della trama, in realtà, va detto che il vero pregio di questi libri risiede altrove.
Più propenso alla commedia che al dramma, Furutani allestisce, innanzitutto, una ricostruzione storica e sociale particolareggiata e molto attenta ai costumi e alle usanze del Giappone feudale.
Con diversi close-up sui personaggi principali, alterna gli scenari più altolocati a quelli più umili, passando per bische, bordelli e teatri – mirabile la rappresentazione kabuki che Kaze improvvisa – con uno sguardo attento alle rigide regole dell’onore e dell’etichetta o alle più semplici consuetudini della tavola o dell’abbigliamento. Kaze stesso, nel suo essere virtuoso, non è fine a se stesso, ma riecheggia nelle sue azioni la spiritualità del buddhismo zen e l’etica del bushido, storicamente formalizzato proprio in quegli anni. Un risultato che trascende la mera narrazione, grazie ad un innesto tanto fluido tra realtà storica e finzione – complice anche una solida traduzione – da mettere a proprio agio anche il lettore meno vicino ad una cultura così remota e lontana.
Sebbene, poi, Furutani metta la parola fine alla saga, negli ultimi capitoli tratteggia perfettamente un promettente background per la giovane protetta di Kaze, che non può che far pensare ad un probabile seguito a questa trilogia.  

Luca Benedetti
(originariamente pubblicato su raramente.net)

mercoledì 13 maggio 2015

Murakami Haruki - After Dark


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Murakami Haruki
After Dark
traduzione: Antonietta Pastore
Einaudi, 178pp

Si intitola Automat ed è un quadro di Edward Hopper del 1927. Immaginate una ragazza dell’epoca seduta in una tavola calda, guarda la tazza di caffè che tiene in mano, indossa un cappellino giallo anni ’20 e, oltre una vetrata, le luci della strada si perdono nella prospettiva notturna alle sue spalle. È sola. Ora spostate la scena in una caffetteria giapponese, sostituite il cappellino giallo con un berretto dei Boston Red Sox, il caffè è ancora caldo ma la ragazza non è più sola, le si è appena avvicinato un ragazzo dall’aria trasandata e ciarliera. Loro sono Mari e Takahashi. È questa l’atmosfera migliore per calarsi nelle pagine di After Dark, un palcoscenico tanto metropolitano, solitario e dalla luce innaturale, quanto onirico, irrazionale, “altro”. Il dove è una Tokio fatta di luci e di jazz, di locali e di alberghi a ore, ma è anche una Tokio silenziosa, ritagliata nelle sue ultime ore prima dell’alba. Il quando è una notte che ne contiene tante altre, fatte per chi picchia le prostitute, per chi suona in uno scantinato, per chi stringe momentanee amicizie e per chi si crea una nuova identità. Ma c’è anche un “altrove”, quello di Eri, la sorella di Mari, “prigioniera” di un sonno che dura da mesi, una letargia autoindotta che apre porte verso altri mondi, luoghi sconosciuti che popolano quella fenditura surrealista che Murakami ama attraversare e raccontare, ma non investigare, lasciandola lì, libera nelle nostre menti. Così tra sonno e veglia si costruisce una storia corale fatta di vite parallele e satellitari, tanto lontane, quanto inconsapevolmente legate assieme. Murakami, però, non gioca con un destino machiavellico e concitato per giungere ad un qualche inesorabile finale. No. Le vite di Mari ed Eri, di Takahashi, Kaoru, Kōrogi e Shirakawa continueranno anche dopo la fine di questa lunga notte, ma non è dato sapere come. Non avrete tutte le risposte, Murakami stesso non le cerca. Come non ha cercato Sumire, scomparsa “altrove” ne La ragazza dello Sputnik, anche ora non finisce il suo quadro, tratteggia solo uno schizzo e lascia che si colori da solo.

Luca Benedetti