martedì 30 giugno 2015

Scott Westerfeld - Leviathan

recensione scott westerfeld
Scott Westerfeld
Leviathan
traduzione: Tiziana Lo Porto
Einaudi, 400pp.

Dopo l’apertura al fantasy con Gli eroi del Crepuscolo di Chiara Strazzulla, Einaudi si apre anche allo steampunk. Stessa edizione di lusso, carta lucida ed illustrazioni. Stavolta, però, non parliamo di un autore esordiente ma di Scott Westerfeld, già noto in Italia, grazie a Mondadori e Newton Compton, per Uglies ed i Diari della Mezzanotte.
La premessa di Leviathan è l’omicidio dell’arciduca Francesco Ferdinando d’Austria del 1914, storico casus belli della Prima Guerra Mondiale. Westerfeld, però, rielabora i fatti storici in un’Europa completamente diversa dalla nostra: le maggiori potenze europee sono divise tra Darwinisti, seguaci delle scoperte di Charles Darwin e padroni di una avveniristica manipolazione del dna animale e Cigolanti, più guerrafondai e fedeli solo alle scienze meccaniche. All’ombra della guerra incipiente si incontrano Alek, il figlio senza titoli regali dell’arciduca, costretto alla fuga dalla aristocrazia austriaca mandante dell’omicidio e Deryn, una ragazza londinese che si finge un maschio per arruolarsi nell’aviazione britannica. E poi lei, la Leviathan, la gigantesca balena-dirigibile da guerra inglese in missione segreta verso l’Impero Ottomano.
In questo scenario di “integralismi scientifici” – quasi religiosi – Westerfeld mescola il gusto dell’avventura di un romanzo di Giulio Verne con l’immaginario di una certa animazione giapponese (Steamboy o Last Exile) ed il risultato sono un’ambientazione ed una varietà di particolari che fanno da vero nerbo a tutto il libro: la Leviathan stessa è più di una balena volante, ma un gigantesco ecosistema vivente abitato dagli uomini dell’equipaggio ed altri animali, mentre i mezzi armati dei Cigolanti, molto simili a futuristici mech robotici, sono alimentati a cherosene e pilotati con leve, manubri e valvole. Di contro, più deboli, seppur ben definiti,  risultano i personaggi che non sembrano nascondere sorprese per il lettore e che molto hanno da invidiare alle figure più “snelle” e vive dei midnighters dei Diari della mezzanotte.
La formula di Westerfeld resta sicuramente promettente, ma per un giudizio più completo bisognerà attendere i capitoli successivi Behemoth e Goliath.

Luca Benedetti
(originariamente pubblicato su Pulp Libri n.87 settembre/ottobre 2010)

Francesco Dimitri - Alice nel paese della vaporità

alice
Francesco Dimitri
Alice nel paese della vaporità
Salani Editore, 288pp

Trovare questo libro dopo tanto digiuno di fantasy et similia è stata una vera sorpresa che, devo confessare, mi ha riportato indietro di più di dieci anni quando scoprii Nessundove di Neil Gaiman nella vecchia collana Il libro d’oro della Fanucci e Le Piume di Vurt di Jeff Noon (Frassinelli, ormai introvabile; ed a questo punto non posso non citare anche il suo Alice nel paese dei numeri, sempre Frassinelli, sempre introvabile).
In calce al libro, una nota sulla Sindrome di Alice nel Paese delle Meraviglie, una patologia che distorce la percezione della realtà. Da questo spunto Dimitri rielabora il classico di Lewis Carroll inserendolo in un filone urban fantasy italiano che aveva esplorato con Pan un paio di anni fa.
Dell’Alice originale, però, si limita a riprendere alcuni nomi e personaggi ed a stravolgerli a suo piacimento – Alice è un’antropologa, il Coniglio Bianco un feroce assassino, lo stregatto un diavolo dei crocicchi – creando, prima di tutto, un mondo tutt’altro che meraviglioso, la Steamland, una sorta di terra di nessuno vicino una Londra vittoriana dal forte accento – ovviamente – steampunk, popolata da mutanti, reietti, vampiri, monaci samurai ed altri prodotti della vaporità del titolo: una sorta di evoluzione del vapore, uno scarto industriale, una sostanza allucinogena che permea tutta l’aria, tanto potente da mostrare continuamente una realtà distorta (o forse proprio la realtà effettiva) e tanto densa da poterci volare sopra.
Inutile dire che riprendere un classico è difficile, rischioso. Dimitri riadatta il necessario, non si lascia stringere da vecchi nodi e raggiunge una formula narrativa indipendente, strutturata attraverso quelli che definisce la Carne, l’Incanto e il Sogno, i tre Aspetti della realtà già elaborati in Pan.
Con queste premesse, l’avventura di Alice è esplorazione e lotta allo stesso tempo, un viaggio violento e sciamanico. La vaporità stessa non resta solo un elemento dell’ambientazione, ma dà una “filosofia” a tutta la storia. Ma qual è la storia?  Quella vera? Perché Dimitri va oltre il plot e la sua diventa una storia meta testuale, un libro nel libro che muta come muta la vaporità, prende una forma diversa e Alice Liddell diventa una delle tante possibili Alice Liddell delle tante possibili realtà.

Luca Benedetti
(originariamente pubblicato su Pulp Libri n.86 luglio/agosto 2010)

Fred Vargas - Prima di morire addio

Fred Vargas
Prima di morire addio
traduzione: Margherita Botto
Einaudi, 196pp

Sicuramente la copertina cardinalizia e le bufere mediatiche di qualche mese fa sulla condotta morale di alcuni uomini di chiesa potrebbero attirare l’attenzione di un lettore affezionato e farlo sperare in una strana coincidenza tra quello che succede tra Italia e Germania e quella che potrebbe essere una variazione d’autore su questo tema. In realtà, in attesa della prima graphic novel della Vargas, Einaudi propone un ripescaggio d’annata, il 1994, precedente, insomma, a molti titoli che hanno dato fama allo pseudonimo della signora Frédérique Audouin-Rouzeau. Premessa dovuta, se non altro, per dare un colpo al cerchio ed uno alla botte. Questo per chiarire che se Prima di morire addio tradisce un po’ le aspettative, dall’altro è un testo che non ha alle spalle il mestiere e le rifiniture che fanno della Vargas l’autrice che è oggidì. La scena si svolge a Roma, tra Piazza San Pietro, Borgo Pio e Piazza Farnese, dove viene ucciso Henri Valhubert, esperto d’arte venuto a Roma per visionare un’opera inedita di Michelangelo presso la Biblioteca Vaticana. Ad occuparsi del caso saranno l’ispettore Ruggeri del commissariato di via del Mascherino, dietro la città del Vaticano, e Richard Valance, venuto dalla Francia sulle tracce di Valhubert; coinvolti nelle indagini, la moglie della vittima, il figlio Claude ed i suoi amici Tiberio e Nerone, un terzetto di studenti francesi brillanti, dissoluti e fuori dagli schemi e protetti dall’occhio vigile del cardinale Lorenzo Vitaletti, amico della famiglia Valhubert. Per quanto il canovaccio vargassiano ci sia e per quanto vi si possano ritrovare gli abbozzi di un Danglard o dei tre Evangelisti, manca, però, quel mestiere cui si accennava in apertura; Roma stessa è poco più che nominata, l’ambiente vaticano si regge su un’ aurea data solo dal suo nome, ma ne esce privo di qualsiasi autorità e severità, mentre le suggestioni che un’ambientazione così potrebbe suscitare vengono delegate troppo alla fantasia dei lettori. Quello che lascia, però, più perplessi è la facilità con cui sembrano accadere le cose, una semplicità che rende il caso meno oscuro di quanto in realtà sia, nella speranza – di chi legge – che poi la risoluzione finale non sia la più scontata e banale. Un colpo al cerchio ed una alla botte: Prima di morire addio è un libro scritto con dieci anni di anticipo, deludente ma foriero di una cifra che fortunatamente già conosciamo.

Luca Benedetti
(originariamente pubblicato su Pulp Libri n.86 luglio/agosto 2010)

Marco Balzano - Il figlio del figlio

recensione balzano
Marco Balzano
Il figlio del figlio
Avagliano Editore, 168pp

Questo è un libro che fa bene.
I protagonisti sono padre, figlio e nipote della famiglia Russo, pugliesi di nascita e milanesi di adozione, che, per una comunissima diatriba familiare intorno alla vendita della vecchia casa al mare, fanno ritorno a Barletta per sistemare l’annosa questione.
Marco Balzano, anch’egli milanese di origini pugliesi, dopo un libro di poesie e di un saggio su Leopardi, fa il suo esordio nella narrativa con questo romanzo dallo spiccato accento autobiografico e lo fa con voce sicura ed un’enorme sensibilità, senza bravure forzate, vicoli ciechi o passi falsi.
I Russo non sono per nulla artificiosi nel loro essere personaggi, in poche pagine già sono Leonardo, Riccardo e Nicola, tre caratteri, tre storie che sono una storia sola: un contadino analfabeta che per seguire il figlio lavoratore abbandona tutto e si trasferisce in un Italia che non sarà mai la sua nuova casa, il figlio, già adulto sin da ragazzo, uomo pratico che si è costruito da solo, ed il figlio del figlio, Nicola, che, sempre vissuto al nord, non ha mai conosciuto la fatica o la povertà. Tre strade parallele che tornano indietro negli anni, costeggiando pezzi di storia familiare e confrontandosi inevitabilmente con un passato rimasto là, al sud. Ciascuno il suo.
Diversi sono i modi di pensare, di guardare le strade, di salutare le persone o di passare le giornate in quella vecchia casa piena di polvere e di oggetti, oggetti che sono sì loro, ma che ormai non gli appartengono più. Diversi sono i modi di parlare; è proprio il tassello della lingua, poi, che permette l’incastro più vivido, quello del dialetto, di cui l’ultimo genuino detentore è nonno Leonardo, figura monumentale in tutto il libro: l’unico per cui l’italiano è ancora un’altra lingua e che quello sradicamento dal sud non lo ha mai superato, l’unico che non è mai cambiato e che a quel rudere giù a Barletta ci tiene ancora.
Rubo una frase dall’introduzione di Luisa Adorno: “Pensai che per affezionarsi a qualcosa possono bastare le parole di un altro ha detto a un certo punto Balzano. Ecco, è proprio quello che è successo a me”. Questa, forse, è la sintesi migliore per capire l’intimità che si trova ne Il figlio del figlio e nell’incastro di rapporti a cui Balzano dà voce tra queste generazioni tanto diverse che difficilmente riescono ad amarsi nello stesso modo.

Luca Benedetti
(originariamente pubblicato su Pulp Libri n.86 luglio/agosto 2010)

Joel Stone - Il dossier Gerusalemme

Joel Stone
Il dossier Gerusalemme
traduzione: Nello Giugliano
Edizioni e/o, 155pp

Nonostante il titolo faccia pensare ad una spystory, questo secondo ed ultimo libro di Joel Stone (l’autore è scomparso nel 2007) prende solo gli spunti del romanzo d’azione per diventare una storia molto più intima ed universale. Levin, un sessantenne ex agente dei servizi segreti israeliani, si reinventa detective privato e si mette sulle tracce di Deborah Kaye e del suo presunto amante Karl Weiss per conto del marito di lei. Quando Weiss viene ucciso, in quello che sembra un attentato terroristico, è la stessa donna ad assumere Levin per far luce sulla vicenda. Levin si ritrova, così, impegnato in una doppia indagine e sempre più coinvolto dalla sua cliente. In realtà, l’idea iniziale sembra essere solo un pretesto. Stone riduce gli elementi e gli eventi al minimo – un marito geloso, una donna irresistibile ed un detective solo e senza uno scopo – per lavorare più intensamente sull’atmosfera.
Levin è un uomo che conosce i segreti e le verità della sua città ed è attraverso il suo sguardo che Stone racconta Gerusalemme: un luogo desideroso di una quotidianità “normale”, più occidentale, ma sempre in attesa; ne esce fuori, ovviamente, una riflessione sul terrorismo, anch’essa altrettanto minimalista, direi civica. Per Levin non c’è una guerra religiosa in atto, per lui esistono solo le bombe, le vetrine che esplodono o la gente che si fa saltare in aria.
Da un quartiere lontano o dal marciapiede di fronte, le esplosioni tagliano trasversalmente la città, come un tuono fuori-campo che arriva ovunque e può colpire chiunque.
La paura, l’abitudine alla paura, le schegge, le vittime, quelli che corrono in aiuto dei feriti, quelli che restano a terra, sono il sistema nervoso che regge tutta Gerusalemme e la solidarietà che si crea tra i sopravvissuti, verso chi si ama ed anche verso chi solitamente si odia, è il dilemma tra le righe di questo thriller interrotto: “eccola la verità innominata del terrorismo. Non era solo dalla minaccia esterna che ti ritraevi impaurito. Anche questo senso di comunanza ti minacciava. Questa intimità poteva anche spingerti a fare le valigie ed andar via”. Ed è questo il vero Jerusalem file, è un’atmosfera – declinata anche nell’assottigliarsi della trama – che piega ogni avvenimento alla sua caducità, lo riduce all’attimo stesso in cui esso avviene perché è quanto mai incerto quello successivo.

Luca Benedetti
(originariamente pubblicato su Pulp Libri n.85 maggio/giugno 2010)

Élmer Mendoza - Proiettili d’argento

ELMER MENDOZA RECENSIONEÉlmer Mendoza
Proiettili d’argento
traduzione: Pino Cacucci
La Nuova Frontiera, 271pp

Proiettili d’argento è il primo libro di Élmer Mendoza tradotto in Italia, ma l’ultimo di una serie che, in Messico, gli ha valso, da parte della critica, la definizione di narcoescritor. Professore universitario, intellettuale e romanziere, quando se ne parla ricorrono spesso nomi come Hammett, Joyce ed il nostro Sciascia, maestri dai quali Mendoza sembra aver attinto più di una lezione sullo scrivere e sull’essere uno scrittore.
Se al noir ed al hard-boiled è debitore per il personaggio di Edgar Zurdo Mendieta, “un semplice poliziotto di quarantatre anni che vestiva sempre di nero, non si radeva da tre giorni ed era ormai incapace di innamorarsi”, e se a Joyce si avvicina per uno stile fluidissimo, dove pensieri, azioni e dialoghi si fondono in un unico periodare, dinamico, breve ed adattissimo alla storia, di Sciascia segue, invece, le motivazioni.
Là dove, quindi, narcoescritor sembra un epiteto ad effetto, parlare di un noir sociale rende meglio l’idea: vivere e scrivere a Culiacán – capitale dello stato messicano di Sinaloa, una delle basi operative dei cartelli della droga – significa, intenzionalmente o meno, scrivere e descrivere anche la vita secondo la “cultura” del narcotraffico, una narcoconvivenza, fatta di sparatorie, omicidi e corruzione, che questa cultura ha radicato in città come Culiacán, Ciudad Juárez e Tijuana. Per questo Proiettili d’argento è un libro estremamente fisico, violento, dove la forma è sottomessa al ritmo ed il ritmo ad una realtà di fatto altrettanto violenta e difficile da controllare.
In questo modo le indagini di Zurdo Mendieta sull’omicidio del giovane avvocato Bruno Canizales, figlio di un noto candidato alle presidenziali, si intrecciano direttamente con la politica e con l’impero criminale della famiglia Valdés. Un impero che el Zurdo conosce bene ma che non sembra temere, ruvido nella sua sfrontatezza e nel suo intuito, distrutto nello spirito da un amore impossibile per la strepitosa Goga Fox, ma non nel mestiere, quando affronta la pupilla dei Valdés, Samantha, o quando non lo stupisce essere il bersaglio di attentati ed intimidazioni a colpi di mitra, mentre la risoluzione del caso diventa sempre più lontana. Perché a Culiacán, Messico, dove “la polizia è la più corrotta del mondo” ed a dettar legge sono i narcos con le loro faide ed i loro traffici, nessuno sembra essere il colpevole, o meglio, tutti sembrano avere le loro colpe ma ben poche risposte.

Luca Benedetti
(originariamente pubblicato su Pulp Libri n.85 maggio/giugno 2010)

giovedì 11 giugno 2015

Banana Yoshimoto - Delfini

banana yoshimoto recensione
Banana Yoshimoto
Delfini
traduzione: Alessandro Giovanni Gerevini
Feltrinelli, 175pp

Un mare denso. Questa l’immagine che ho avuto in mente durante tutta la lettura di Delfini.
Kimiko è una ragazza indipendente ed autonoma, senza troppi legami, neppure con il padre e la sorella. Dopo un flirt con Goro, un uomo già impegnato con una donna più grande, preferisce allontanarsi da lui senza approfondire ulteriormente il loro rapporto, portando con sé solo il ricordo di una romantica notte iniziata all’acquario di Tokio. Questa scelta la spinge via dalla città, prima come cuoca in un tempio frequentato da donne dai difficili trascorsi e poi, in solitudine, in una casa al mare imprestatale da un suo amico. Ad interrompere questo sereno vagabondare sarà un’inquietudine crescente che troverà una spiegazione solo grazie ad una ragazza conosciuta al tempio, e dotata di facoltà psichiche, che le rivelerà di essere incinta di Goro.
Una gestazione raccontata tra pagine di delicata semplicità ed altre dal sapore più gotico in cui la Yoshimoto lavora su due immagini fortissime nella mente di Kimiko: i delfini, visti all’acquario insieme a Goro alla vigilia del concepimento di Akane e gli animali imbalsamati da lei rinvenuti nella casa di villeggiatura. Questi sono probabilmente i passaggi più suggestionanti del libro, quasi fastidiosi, una sorta di limbo sensoriale dove quel mare denso arriva tutto, lentamente, con la sonnolenza di Kimiko, la sua perenne stanchezza, i malsani odori nella casa, i sogni sui delfini e sulla madre trapassata da tempo e quegli animali senza vita, sgradite suppellettili domestiche che diventano figure totemiche da interpretare ed esorcizzare e che altro non sono se non le incertezze sulla futura nascitura e sullo stesso Goro. Un libro sulla maternità che la Yoshimoto affronta come sa fare, attraverso i suoi temi più classici – il destino, la famiglia, l’amore, la morte – elaborando una gravidanza inattesa e disseminata di incontri, simboli, sogni ed incubi ad occhi aperti che convergono tutti nella nascita della piccola Akane. Una piccola genesi che passa per i luoghi oscuri dell’animo di una Kimiko che deve mettere in discussione la propria persona per confrontarsi con la complessità dell’essere donna, figlia ed ora madre e compagna di vita.

Luca Benedetti
(originariamente pubblicato su Pulp Libri n.84 marzo/aprile 2010)

Gioacchino Criaco - Zefira

recensione criacoGioacchino Criaco
Zefira
Rubbettino, 193pp

Dopo il successo di Anime nere, sempre per Rubbettino, Gioacchino Criaco continua a raccontare la sua Calabria con una storia di uomini d’onore ed uomini di legge.
L’impianto è classico e godibilissimo: un “omicidio eccellente” sconvolge il tacito equilibrio criminale che regna tra i potenti di Zefira e la polizia, a seguire le indagini il commissario Luca Rustici, milanese da pochi mesi trasferito a Zefira. Poco rumoroso, solitario, ma curioso e con tutta una vita da recuperare (o da dimenticare), Luca Rustici è un filtro a maglie larghe dal quale man mano Zefira fuoriesce con tutta la sua bellezza e la sua crudezza. Ed è importante che questo protagonista non sia solo un veicolo di legge en plein, perché lascia modo a Criaco di creare una sorta di premessa emozionale con cui permea tutto il suo testo. Zefira è una storia sulla lontananza, una triplice lontananza.
Una di Rustici, lontano da casa, dal Nord, nella piccola e misconosciuta Zefira pronta a sedurlo, distrarlo e pilotarlo. L’altra dello Stato, delle istituzioni e delle regole che a Zefira sembrano essere assenti ed inefficaci ed infine la lontananza di Zefira stessa, irraggiungibile e forte delle leggi che si è fatta da sola.
La lezione che Rustici impara è che quando lo Stato non c’è, quando tutto viene deciso da troppo lontano per essere vero, allora “i zefiresi fanno da soli. Come sempre”.
Questa diversità, questa asimmetria tra uno potere e l’altro, è la leva che Criaco usa per sollevare il coperchio della trama e raccontare un luogo e la sua gente, quella comune e quella della ‘ndrangheta.
Ed allora forse è sbagliato parlare di Zefira solo come di “una storia”. Perché per Criaco questa non è solo l’ambientazione di un romanzo, ma vita vera – il fratello è altrettanto noto alle cronache per essere stato uno dei killer più inafferrabili della Locride, quel Pietro Criaco consegnato alla giustizia nel 2008, dopo ben dodici anni di latitanza – e come tale Zefira va ragionato nel suo essere tra narrazione e cronaca, andando a ricercare le sue peculiarità non tanto nella finzione narrativa, ma in ciò che l’ha generata.

Luca Benedetti
(originariamente pubblicato su Pulp Libri n.84 marzo/aprile 2010)

Jaume Cabré - Signoria

JAUME CABRÉ recensione
Jaume Cabré
Signoria
traduzione: Ursula Bedogni
La Nuova Frontiera, 347pp

Sarebbe riduttivo parlarvi di Signoria come di un noir e lo sarebbe altrettanto parlarvene come di un romanzo storico. Signoria è un libro ricchissimo. Per la fluidità del linguaggio che passa dal registro alto a quello gergale, per i personaggi così vividi, che siano in primo piano o appena schizzati, per la flessibilità nello spostarsi da un genere all’altro, per la maestria con cui si fa beffe delle regole nel raccontare una parabola sul potere e sulla corruzione in una Barcellona di fine settecento eppure molto attuale. Al centro della storia c’è Don Rafel Massò, cancelliere del Regio Tribunale di Barcellona che si ritrova per le mani l’omicidio della passionale Marie de l’Aube Desflors, cantante d’opera francese in visita in città. Dalle sommarie indagini risulta unico sospettato – e quindi colpevole – il giovane poeta Andreu Perramon, amante di una notte della burrosa artista e possessore, a sua insaputa, di uno scottante carteggio proprio sul giudice Massò. Un intreccio di eventi semplice ed irreversibile, un trampolino, per Cabré, che si lancia in una visuale a volo d’uccello su tutta Barcellona, mentre Andreu e Don Rafel diventano le pedine di un gioco più grande di loro, quello della alta società barcellonese, dei nobili, dei religiosi, degli arricchiti, dei letti, degli amanti e delle carriere. Un gioco a cui Cabré dà le tinte del grottesco, dove il dramma di Andreu si trasforma nella satira di Massò, arrivista in pubblico, guardone nel privato, sposato alla castissima Donna Marianna e per nulla disposto a rinunciare né al potere né a piaceri ben più libertini. Questi sono i due poli morali di Signoria, la lussuosa giostra dei salotti ed il gretto meccanismo che la fa girare. La virtuosità di Signoria, però, sta anche nel non compiacersi di questo acume, tanto che se Don Rafel non fa certo onore alla sua categoria, Cabré ce lo sa raccontare con un’ironia così tagliente e così bonaria che alla fine viene quasi da perdonargli i suoi peccati, dimentichi, persino, di scoprire chi abbia ucciso la Deflors all’inizio del libro e completamente distratti nell’inseguire per le vie di Barcellona un guidice Massò burattino e burattinaio di un sistema in cui “per la giustizia c’è peccato solo nella misura in cui se ne conosce l’esistenza”.

Luca Benedetti
(originariamente pubblicato su Pulp Libri n.84 marzo/aprile 2010)

mercoledì 10 giugno 2015

AA.VV. - aNobii. Il tarlo della lettura

recensione anobii
AA.VV.
aNobii. Il tarlo della lettura
Rizzoli, 493pp

Questa è una recensione un po’ metatestuale perché parla di un libro composto unicamente da altre recensioni. Per chi fosse a digiuno di social network, aNobii – da anobium punctatum, il c.d. tarlo della carta - è una piacevolissima community web creata da un ragazzo di Hong Kong di nome Greg Sung, dove anziché condividere foto e video, è possibile pubblicare la propria libreria online, recensire libri, scambiare opinioni e scoprire sempre nuovi materiali di lettura.
Il tarlo della lettura è un progetto italianissimo, nato all’interno della Rizzoli da un’idea di Angela Lombardo in sinergia con Barbara Sgarzi, referente di aNobii per l’Italia. Si tratta di un bel balenottero rilegato di cinquecento pagine con una impaginazione un po’ vintage, che ricorda le vecchie enciclopedie di qualche polverosa biblioteca, e le illustrazioni di Chiara Rapaccini che richiamano un po’ Quentin Blake e Sir John Tenniel, quelli di Roald Dahl e di Alice nel paese delle meraviglie per intenderci. Per mettere aNobii su carta sono state utilizzate le hit delle preferenze degli utenti per individuare i primi 100 libri in classifica e le relative recensioni più votate con un risultato di 500 recensioni ad opera di ben 333 lettori anobiiani (più una bonus track di altre 100 per i titoli di nicchia). Pur allontanandosi dal layout del sito, di questo si è mantenuta la navigabilità: per recensori, per titoli o per ambientazione, oppure seguendo nove inedite rotte per naviganti (senza pietà, il diritto di non finire, massimi sistemi, dove l’ho letto, questo film l’ho già letto, letto e riletto, semplicemente mi è piaciuto, passaparola, divorati e anche no).
Il tarlo della lettura è un libro per leggere chi legge, ma non si tratta semplicemente di un aNobii stampato! La scelta grafica, il curioso dato statistico che vuole gli utenti italiani di aNobii essere un terzo dei suoi utenti di tutto il mondo, gli interventi di editing limitati veramente al minimo per lasciare ogni recensione fedelissima all’originale online e la presenza di vere perle di bravura ci mettono davanti ad un esperimento interessante e sinora unico, un volume dalla duplice qualità, sia perché è oggettivamente uno sguardo sui lettori nostrani, sia perché assume la forma e la sostanza di un testo di critica alternativo, autoriale ma popolare allo stesso tempo.

Luca Benedetti
(originariamente pubblicato su Pulp Libri n.83 gennaio/febbraio 2010)

Knud Romer - Porco tedesco

recensione knud romer
Knud Romer
Porco tedesco
traduzione: E. Kampmann
Feltrinelli, 149pp

Esperto di letteratura comparata, pubblicitario di successo, attore per Lars Von Trier in The Idiots e sin ora autore di guide su argomenti anticonvenzionali e inconsueti, Knud Romer debutta in Italia con Porco tedesco, biografia della famiglia Romer tra la Germania della seconda guerra mondiale e la Danimarca dei primi anni sessanta. 
Piccola premessa: il titolo italiano ne nasconde uno originale, Den som blinker er bange for døden, dalla traduzione ben più austera (Chi batte ciglio ha paura della morte) e che spiega, forse meglio, lo spirito del libro.
Due sono le costanti nella vita del piccolo Knud, la nazionalità della madre Hildegard, tedesca trapiantata in Danimarca, e la piccola comunità di Nykøbing Falster, un paesino che finisce prima ancora di iniziare e dove la gente è tutt’altro che propensa ad accettare una seppur tranquilla e riservata famiglia che ancora gli ricorda il tedesco invasore degli anni di Hitler. 
In realtà, il filone xenofobo, sebbene sia il più vibrante, nel libro è molto tardivo e limitato agli ultimi anni, mentre buona parte della narrazione è dedicata ai nonni – forse le pagine più colorite del testo, quelle che farebbero pregustare una più romanzesca saga familiare, premessa poi ridimensionata – e alla giovinezza di Hildegard, legata alla resistenza antinazista e arrivata in terra danese in quegli anni ’50, quando la Danimarca sembrava un paese da fiaba e “dove tutte le cose erano piccole e sembravano giocattoli”. Nel dare forma a questa biografia, Romer sa passare dalla leggerezza al dramma e viceversa, mentre rispolvera volentieri alcune frasi nell’originale tedesco della sua infanzia, non come preziose citazioni, ma, più probabilmente, come un’ancora linguistica lanciata nel passato per non dimenticare quel retaggio teutonico così scomodo e importante. Porco tedesco è un tributo genealogico alla famiglia Romer, un susseguirsi di eventi, aneddoti e ritratti di famiglia in un disordine quasi richleriano – che si sa, si ama o si odia – lasciati liberi di scorrere tra le pagine senza un preciso ordine cronologico, esattamente come possono accavallarsi confusamente nella memoria i ricordi di una vita intera.

Luca Benedetti
(originariamente pubblicato su Pulp Libri n.83 gennaio/febbraio 2010)

martedì 9 giugno 2015

Sara Vannelli - Guarda che me ne vado

recensione sara vannnelli
Sara Vannelli
Guarda che me ne vado
Leconte, 160pp

Nella prefazione Lidia Ravera parla di “scrittura orale… roba da teatro” ed è vero, perché, in effetti, la Vannelli per il teatro ha già scritto e perché a leggerli, questi racconti, viene voglia di sentirli. 
Una raccolta molto sonora, fatta di dialoghi serrati, pensieri ed interferenze, tirate di sigarette e zapping. 
Si comincia con una famiglia un po’ sfatta, poi seguono due amanti in procinto di dirsi addio, un vecchio dalla pronunciata arteriosclerosi, un ragazzo pronto ad un lucidissimo suicidio, la coppia omosessuale e quella eterosessuale, chi si chiede che cavolo di lavoro faccia Alba Parietti, chi parla solo in inglese, chi ha il ciclo e chi vomita di nascosto. 
Storie che, in realtà, non sono storie in tutto e per tutto, sono spezzoni, sezioni di storie, momenti che si perdono o si concentrano nella loro istantaneità. Tutti i protagonisti camminano molto sulle loro parole, vivono la velocità di un’esclamazione o di un gesto. 
Viene da pensare, però, non tanto a cosa la Vannelli abbia da dire, ma al come; perché una delle prime impressioni che si hanno leggendo è che questa scrittura non sia nata per piacere! Ritorno proprio sul discorso della sonorità: prevale una ricerca mirata alla qualità del parlato, alla cura dei dialoghi, verosimili e come tali anche imperfetti, immediati, confusi e diretti. 
Trattandosi di una raccolta ci sono ovviamente alti e bassi - da segnalare alcune letture imprescindibili: “Can’t we just kiss”, “Buongiorno, buongiorno”, “Chi è l’eroe di questo libro?”, “22° piano (Vespa non c’è)”, “Business class” e “A dirla tutta mi siedo anche’io” - ma ogni testo resta strettamente legato ad uno sperimentalismo che volentieri rifugge le regole o le aspettative del racconto; si alternano pagine a volte un po’ sfocate ad altre scritte in macro e con un’espressività tale che se da un lato non rende la lettura sempre semplice, dall’altro la fa più interessante. A dare, poi, un passo unitario a questi 29 racconti sembra essere sempre qualcosa che manca, qualcosa di non detto o di non vissuto, qualcosa di meno amaro, come un sorriso, un amore, un sensazione di maggiore tranquillità o di speranza.



Luca Benedetti
(originariamente pubblicato su Pulp Libri n.83 gennaio/febbraio 2010)

mercoledì 3 giugno 2015

Mercè Rodoreda - Via delle Camelie

recensione rodoreda
Mercè Rodoreda
Via delle Camelie
traduzione: Giuseppe Tavani
La Nuova Frontiera, 202pp

A neanche un anno dalla pubblicazione de La piazza del Diamante (Pulp Libri 79), La Nuova Frontiera continua la ristampa delle opere della catalana Mercè Rodoreda. Via delle Camelie scritto nel 1966 e vincitore del Premio Sant Jordi – inizia con una neonata abbandonata davanti al cancello di un giardino, accanto a lei solo un foglietto di carta che recita “Cecilia Ce”, un nome incompleto, una mezza identità, che, per tutta la sua vita, Cecilia cercherà di completare. Un percorso amaro, fatto di molti uomini, aborti, prostituzione e violenze. Se, però, per La piazza del Diamante, la Rodoreda aveva scelto una Natàlia commovente e drammatica, con Cecilia crea una sorta di vittima illesa dalle sue disgrazie, più portata al cinismo che al dolore, quasi distante dalla sua stessa vita e mai veramente coinvolta e – volutamente – mai coinvolgente. Vive di amori complicati, morbosi, velatamente freudiani, nati dal caso o dall’opportunismo, ma senza un vero e profondo sentimento a sostenerli; amori incompiuti, come le sue gravidanze, sempre interrotte, quasi fossero un sintomo del destino della sua impossibilità di iniziare un percorso di madre senza aver prima concluso il percorso di figlia. Una donna incompleta quanto il suo nome, anche se è proprio dal confronto con la storia di quel nome che Cecilia può recuperare una stabilità da cui ricominciare. La sua storia è più un’involuzione che una crescita, non ha lo spirito palpitante di Natàlia, le sue preoccupazioni o le sue paure. In perfetta aderenza al carattere di Cecilia è, poi, la prosa in prima persona che la Rodoreda adotta per raccontare Via delle Camelie, fredda e senza eccessi. Probabilmente ne risulta una protagonista difficile da amare ed alla quale affezionarsi, ed è vero, ma la capacità espressiva della scrittrice catalana è stata proprio nel saper raccontare la storia di un vuoto che, nel tentativo di colmarsi, si allarga sempre di più e nel tratteggiare una Cecilia, al tempo stesso, bisognosa di tutti e di nessuno, insensibile a se stessa perché se stessa non è mai veramente stata, una figlia di nessuno, se non della sua Barcellona e delle sue strade.

Luca Benedetti
(originariamente pubblicato su Pulp Libri n.81 settembre/ottobre 2009)

Ian McEwan - For You

Ian McEwan
For You
traduzione: Susanna Basso
Einaudi, 106pp

Negli anno ‘80 Ian McEwan e Michael Berkeley – compositore e marito dell’agente letterario di McEwan, Deborah Rogers – collaboravano alla stesura di Or Shall We Die?, un oratorio sulla problematica del nucleare. A trent’anni di distanza, sono tornati a lavorare insieme in For You, un’opera teatrale commissionata dal Music Theatre Wales di Cardiff e che in terra inglese ha già suscitato parecchio interesse da parte degli appassionati. For You ruota attorno ad una domanda, ossia, quanto il potere o il talento di un uomo possano giustificare un suo comportamento licenzioso e libertino. McEwan crea, così, il suo dramatis personae con Charles Frieth, sessantenne direttore d’orchestra, compositore e donnaiolo, la di lui moglie ammalata quanto tradita, il di lei dottore innamorato, un segretario tutto fare, una suonatrice di corno e Maria, la governante polacca di casa Frieth. Genio creativo, sesso, musica, tradimento e misunderstanding sono gli elementi che McEwan rielabora insieme ai suoi personaggi per i due atti di For You. Così tornano l’instabile Jad Perry de L’amore fatale nelle vesti di Maria, quel Clive Linley tanto ossessionato dalla sua musica in Amsterdam o le inesorabili conseguenze di un equivoco del bellissimo Espiazione. Vi è persino una scena in between the sheets, tra le lenzuola, come recita il titolo di una sua raccolta di racconti. In una intervista rilasciata al Times su questa sua virata artistica nel libretto d’opera, McEwan ha confessato di non apprezzare molto certe produzioni operistiche, troppo spesso caratterizzate da musiche di gran qualità, ma da plots poco interessanti. Sceglie, così, un approccio diverso, basato su di uno “psychological realism”, un realismo psicologico, più stimolante e nelle sue corde, con la ferma intenzione di salvaguardare non solo un maggior equilibrio qualitativo tra testo e musica, ma anche la loro fruibilità, tanto da pretendere che l’opera fosse sottotitolata durante tutta la rappresentazione stessa.

Luca Benedetti
(originariamente pubblicato su Pulp Libri n.81 settembre/ottobre 2009)

Paola Mastrocola - La narice del coniglio

recensione paola mastrocola
Paola Mastrocola
La narice del coniglio
Guanda, 76pp

Pubblicato inizialmente nel 2008 tra I corti di carta del Corriere della sera in una variante più breve, La narice del coniglio è una storia sui piccoli aspetti della vita che, però, fanno una personalità. Immaginate di viaggiare in treno. Questo prende velocità e tutte le cose che state guardando fuori dal finestrino iniziano a mescolarsi. I colori, i contorni, le distanze, ogni particolare si confonde e diventa di un grigio uniforme. In quel momento avreste bisogno di un finestrino speciale da dove poter guardare tutto per come è realmente. Barbara Lope ha il suo finestrino speciale. Quando il mondo non va, quando vorrebbe essere altrove, quando è ad un passo dal fare qualcosa che non la convince o che tutti si aspettano che lei faccia, quando quel “grigio” arriva, Barbara ha un gesto, un tic, un suo “maniglione antipanico” che le permette di mettere un piede fuori dalle regole e dagli schemi. Barbara fa la narice del coniglio! Un gesto buffo, spesso fuori luogo e poco garbato, ma non è solo un tic o una mania, qualcosa di fisico che il corpo si porta dietro per qualche scherzo delle terminazioni nervose, è anche un pensiero, un’abitudine, un atteggiamento. Senza essere una ribelle o un’anticonformista, Barbara riesce a non farsi travolgere da ciò che l’allontana proprio da se stessa, sa rinunciare a quelle scelte dettate solo dalla ragione, dal portafoglio, o magari dall’età, per portare con sé solo le cose più importanti. In realtà, questo libro è un respiro. Un inno alla libertà. Certo, Barbara si muove in un mondo abbastanza edulcorato, dove certe scelte più rischiose si possono anche fare, ma questo bildungsroman sui generis è soprattutto una metafora sulle attenzioni che possiamo avere verso noi stessi. La Mastrocola usa la gentilezza della semplicità e dell’ironia per disegnare una storia su come diventare grandi senza perdere la propria identità e conservare quel giovanile guizzo di irregolarità e rimanere padroni di sé. Perché si deve vivere ascoltando più se stessi e meno tutti gli altri. Perché “tutti gli altri” sono troppi e di se stessi ce n’è uno solo.

Luca Benedetti
(originariamente pubblicato su Pulp Libri n.81 settembre/ottobre 2009)

Yoani Sánchez - Cuba Libre Vivere e scrivere all’Avana

recensione cuba libre
Yoani Sánchez
Cuba Libre Vivere e scrivere all’Avana
traduzione: Gordiano Lupi
Rizzoli, 238pp

A Cuba una connessione internet è un lusso, poter scrivere liberamente è un lusso ancora maggiore, se non addirittura un atto eversivo, magari finanziato dalla CIA. Quando nel marzo del 2008 il governo cubano oscurò il blog di Yoani Sánchez, Generación Y era già abbastanza noto perché alla sua autrice andassero, di lì a due mesi, prima il premio Ortega y Gasset per il giornalismo digitale istituito da El País e, a maggio, il novero del New York Time tra le cento persone più influenti del mondo. Yoani Sánchez, nata a Cuba nel 1975, filologa e per breve tempo transfuga in Svizzera, nel 2004 torna all'Avana e si impiega presso il portale DesdeCuba.com come webmaster. Le ragioni del suo rientro non sono ben chiare neppure a lei, ma quello che ritrova la motiva maggiormente a restare. Nel 2007 posta il suo primo messaggio su Generación Y, nome che Yoani Sánchez ha scelto pensando alla sua generazione, cresciuta tra gli anni ’70 e ’80, battezzata con una Y nel nome, dall’assonanza vagamente sovietica, e passata attraverso le restrizioni economiche del períodio especial, il razionamento, le limitazioni sociali, l’embargo e l’eredità di una ideologia mai sentita veramente. Yoani Sánchez scrive delle buche per le strade, delle buste per la spesa che restano vuote, della carenza di insegnanti, delle difficoltà derivate dal doppio conio (i pesos di poco valore per lo stretto necessario ed i pesos convertibili in dollari per beni dal costo proibitivo), della corrispondenza violata dal controllo delle autorità, del sospetto e, soprattutto, del mercato nero, dove non si trafficano solo oggetti materiali, ma anche l’informazione - non quella di stato - sotto l’ombra onnipresente del Líder máximo. Un blog di protesta non ideologica ma raccontata attraverso la vita quotidiana di quell’Avana lontana dall’immaginario turistico che la Sánchez stessa non può che criticare. Alla censura cubana di Generación Y ha risposto un’intera community internazionale che ha permesso a Yoani Sánchez di continuare a scrivere, inviare i suoi post per e-mail e saperli ugualmente pubblicati e tradotti in diciassette lingue. Di questi post, Rizzoli propone una scelta a cura di Gordiano Lupi, già autore della versione italiana di Generación Y (http://desdecuba.com/generaciony_it/). Attualmente la Sánchez è anche tra le firme del settimanale Internazionale.

Luca Benedetti
(originariamente pubblicato su Pulp Libri n.80 luglio/agosto 2009)


Michela Murgia - Accabadora

recensione michela murgia
Michela Murgia
Accabadora
Einaudi, 164pp

Dopo Viaggio in Sardegna e la più recente partecipazione in Lavoro da morire, Michela Murgia conferma la sua presenza in Einaudi per il suo primo romanzo, così come lo ha definito su Il Sardegna, ripensando a Il mondo deve sapere, uno smaliziato real-book sulla vita nei call center cui la Murgia sente di attribuire un valore più “documentale” che narrativo.
In effetti, la differenza tra i due testi è lampante e sarebbe anche inutile argomentarla, se non fosse per il passo che la Murgia ha voluto compiere verso una narrativa più matura, più compiuta, più difficile. Siamo negli anni ’50, in un paesino della Sardegna, quando l’isola era ancora un luogo lontanissimo dal resto dell’Italia, dal “continente”, come la chiamava Grazia Deledda, e molte usanze erano ancora vive. Maria Listru è una fill’e anima, una figlia dell’anima, una bambina adottata dalla vecchia Bonaria Urrai per aiutare la madre di Maria, più povera, ad allevare l’ultima figlia, “la quarta”. Bonaria Urrai, però, non è solo una benefattrice. Bonaria Urrai è un segreto, fatto di freddezza e saggezza, l’una per disfare e l’altra per non dimenticare, mai.
Bonaria incarna la legge del popolo, più forte di quella scritta, nata dalla necessità e che ha il suo espediente per aggiustare le cose, un rimedio risaputo ma bisbigliato, talmente lontano dal nostro quotidiano che le cronache italiane non ne fanno più menzione da almeno mezzo secolo. Perché Bonaria, quando viene chiamata al capezzale di malati e moribondi, sa fare ciò che è necessario per acabar, per porre fine alla vita di chi una vita, ormai, non può più avere. E, perché no, anche al travaglio dei relativi parenti. Ai margini di questa vita segreta di Bonaria sta Maria, perché Accabadora è anche un libro su madre e figlia, su un rapporto nato da un’usanza e che da un’usanza viene rotto e ricomposto, in una Sardegna appena accennata nei paesaggi e che la Murgia preferisce esprimere attraverso i suoi personaggi, con le loro parole, i loro ragionamenti, con quella visione della vita fatta anche di cose invisibili, di credenze, di vendetta, di silenzio.

Luca Benedetti
(originariamente pubblicato su Pulp Libri n.80 luglio/agosto 2009)

Chris Killen - La casa degli amanti indecisi


Chris Killen
La casa degli amanti indecisi
traduzione: Costanza Prinetti
Einaudi, 168pp

Chris Killen, inglese di Manchester, debutta in Italia con un libro dai toni leggeri ed allo stesso tempo grigi. La casa degli amanti indecisi, a dispetto del titolo, non è esattamente una storia d’amore. Will è un ragazzo annoiato, stanco del proprio lavoro, poco pratico dell’universo femminile e profondamente prevenuto nei propri confronti. Will ha un amico, un altro Will, artista, ben quotato, narciso, gira il mondo e le donne con estrema disinvoltura e tutto gli va schifosamente liscio. Quando il primo Will, con sua grande sorpresa, inizia una relazione con la bella Alice, ragazza che altrimenti avrebbe definito inarrivabile, non può fare a meno di sprofondare in una distorta e paranoica versione della loro storia, una versione a tre, immaginaria ma non troppo. Killen intreccia, poi, la trama principale con le vicende di Helen, attrice mai realizzatasi, che per arrotondare esegue prestazioni sessuali sul web. I plot sono destinati, ovviamente, a convergere e con un incastro spazio-temporale lasciato all’intuito del lettore, Killen crea uno stuzzicante who’s who tra i suoi personaggi. Una struttura, sulle prime, piacevolmente disorientante, ma che, poi, va gradualmente ridimensionandosi per smorzarsi definitivamente in un finale dove i fili si intrecciano senza, però, stringere bene il nodo. Questo potrebbe essere un deterrente nell’approcciarsi ad un nuovo autore, tuttavia va fatta un’ulteriore riflessione. La qualità di questo esordiente sta nel raccontare di una coppia moderna senza prendersi troppo sul serio. Con uno speech essenziale ed ironico, non indugia sulla drammaticità o sulla passione, non vuole creare con Will un nuovo doppio letterario. Preferisce che gelosia e dolcezza lascino il posto ad ossessioni e vite virtuali. La raison d’etre de La casa degli amanti indecisi è raccontare una mente. Una mente che vaga nelle proprie paure, nelle proprie debolezze, nella strenua convinzione che la felicità non è cosa per sé, neppure quando ti cade tra le braccia nel momento in cui meno te lo aspetti.

Luca Benedetti
(originariamente pubblicato su Pulp Libri n.80 luglio/agosto 2009)