Mercè
Rodoreda
In
occasione del centenario della nascita di Mercè Rodoreda (1908-1983), La Nuova Frontiera
ripropone in Italia uno dei suoi testi più importanti, sia per la letteratura catalana
che europea. Una data che si accompagna anche ad un riconoscimento tardivo
della critica nei suoi confronti, quale una delle maggiori autrici del
dopoguerra spagnolo, tanto che, in un pluricitato articolo de El Pais degli anni ’80, lo
stesso Gabriel García Márquez si stupiva di come, alla scomparsa della Rodoreda, la
notizia non avesse oltrepassato i confini iberici. In merito, del 2008, si è
parlato come dell’Año Rodoreda: su iniziativa
della Fundación Mercè Rodoreda e delle
istituzioni spagnole si sono avvicendate ristampe editoriali in tutta Europa, giornate
accademiche a Parigi e New York, una riduzione teatrale di Josep Maria Benet i
Jornet, rigorosamente in catalano, e la presentazione di una edizione gratuita
de La Piazza
del Diamante alla Fiera del libro di Francoforte. Un anniversario che, con
questo libro, ci porta indietro di settant’anni, all’alba della guerra civile
spagnola fino all’ascesa di Francisco Franco, quando la Rodoreda , antifascista e impegnata
sul fronte indipendentista del governo autonomo della Catalogna, sceglieva un
esilio trentennale che si sarebbe concluso solo nel 1972. È sul filo di questi
anni che si svolge la La plaça del Diamant ed è
proprio là, in quella piazza barcellonese, che con un paso doble di
danza, Natàlia conosce il futuro sposo Quimet. Ragazza timida, di poche parole
e ancor meno malizia, Natàlia viene così trascinata nella vita, con un marito
passionale e carismatico, allevatore di colombi ed ebanista, un amore che, poi,
la guerra civile le porterà via, lasciandola sola e con due figli da crescere. Un
iter durissimo che sfiorerà la tragedia e dal quale si riscatterà solo con un
secondo salvifico matrimonio, non privo, però, di vecchie ferite. La voce che la Rodoreda adotta è la voce
di Natàlia stessa, meravigliata, remissiva, concitata, felice e disperata, più
vicina al parlato della confidenza che alla parola scritta, “con uno stile” – si
legge nella postfazione di Giuseppe Tavani – “volutamente discorsivo, ritornante,
quasi elementare ma che si mantiene in prezioso equilibrio tra lingua viva e
«grammatica»” e che “rievoca le vicende quotidiane di una donna semplice,
ingenua, fragile eppure capace di far fronte alle difficoltà crescenti della
vita con insospettate risorse”. Una voce che è anche quella del popolo catalano,
trafitto e privato della propria libertà, dove i ricordi, gli affetti e le
paure si spiegano e si raccontano con immagini altrettanto semplici, come
l’umile veccia del droghiere, il vecchio orologio di Quimet, lo svolazzare dei
suoi colombi o le fucilazioni in piazza e le bandiere, tesori della memoria e
del “tempo che non si vede e ci impasta”.
Luca Benedetti
(originariamente pubblicato su Pulp Libri n.79 maggio/giugno 2009)
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